Rape, mele, zucche e noci, carne di manzo, di maiale e di pollame, vin brulè, birra e sidro di mele. Erano questi, nell’Irlanda celtica precristiana, i protagonisti dei grandi banchetti di Samhain, la festa celebrata sulla Hill of Ward, presso la città di Athboy nell’attuale contea di Meath. Si teneva tra l’ultimo giorno di ottobre e l’inizio di novembre. L’occasione era la fine del raccolto e la conseguente abbondanza di cibo con tutti i prodotti di stagione.
Al tempo stesso, però, i Celti credevano che Samhain fosse anche un periodo di transizione in cui il mondo dei vivi e quello dei defunti si mescolavano liberando gli spiriti ultraterreni e le forze del male. Per questo al tramonto si travestivano oscuramente e accendevano il fuoco per confonderli, spaventarli e allontanarli.
Irlanda, tutti i festeggiamenti per Halloween
Un miscuglio di tradizioni, misteri e festeggiamenti, insomma, che ancora oggi il Paese mantiene saldamente in vita nel nome di Halloween. L’area del promontorio di Ward e della vicina collina di Tara ospita ancora il Festival di Púca, moderna rievocazione dell’antica celebrazione con accensione della luce simbolica del fuoco attraverso performance avanguardistiche. Mentre a Derry-Londonderry, in Irlanda del Nord, va in scena il tradizionale e maestoso Derry Halloween Festival, che vede le strade della fascinosa città fortificata affollarsi di antichi spiriti grazie agli scenografici travestimenti dei partecipanti, tra spettacoli di luce, musica live e ricette tipiche. Culminando nella variopinta Halloween Carnival Parade, con esibizioni spettrali di circo e danza.
Zucche illuminate da macabre espressioni, derivanti dall’usanza di scavare rape e grandi patate per farne lanterne, invadono ogni città. E i bambini bussano alle porte al grido di dolcetto o scherzetto in ricordo dei coetanei poveri che andavano di casa in casa cantando canzoni o offrendo preghiere per le anime dei defunti in cambio di cibo, solitamente una soul cake (pane appiattito ripieno di frutta), legna o denaro.
Un menù dai sapori più autentici
A essere eliminata dai tradizionali menùdi Halloween, col tempo, è stata la carne. In favore di piatti autenticamente irlandesi a base di patate, frutta e noci. Come il colcannon, con purè di patate, cavolo tritato o cavolo verde e cipolle. E il barmbrack, pane dolce con uvetta e frutta secca che nasconde al suo interno piccoli oggetti, ciascuno con un significato particolare da considerare indizio di accadimenti futuri: un anello rappresenta l’incontro con il vero amore, un ditale l’incertezza del matrimonio, un pezzetto di stoffa una previsione di povertà e una moneta quella di ricchezza.
Senza dimenticare le immancabili mele, che erano legate a presagi d’amore. La buccia pelata a truciolo e lasciata cadere a terra assumeva la forma dell’iniziale del nome del futuro innamorato. Che era in arrivo anche per chi riusciva ad addentarla da una bacinella piena d’acqua. Mentre il vero e proprio corteggiamento consisteva nel sedersi attorno al fuoco a raccontare storie arrostendo noci. Ora questi frutti vengono simbolicamente intagliati a forma di mostriciattoli. Oppure utilizzati nelle torte ricoperte di crema bianca come le vesti dei fantasmi. E nei biscotti a forma di ragni sanguinosamente intrisi di succo di mirtillo rosso.
Ma se volete sapere proprio tutto di quello che accadead Halloween in Irlanda, leggeteQUI.
2 dicembre 2016 – Se c’è uno che non riesce a stare fermo troppo a lungo nello stesso posto è proprio lui. Si muove continuamente tra Italia e estero, si ferma un po’ dove sente di dover vivere e lavorare in quel momento, poi torna, riparte. Sempre guidato da quell’intenso legame tra inquietudine e passione che lo caratterizza e che ne ha fatto uno degli artisti più interessanti e coinvolgenti degli ultimi anni.
Adesso, per esempio, dopo dieci anni di frequentazione, si è scoperto perdutamente innamorato di Los Angeles. E’ lì infatti che ha registrato gran parte del suo ultimo album Il mestiere della vita (Universal), da oggi in tutti i negozi di dischi e store digitali, che torna a guardare alle sue origini come un novello inizio tra liriche e melodie, allargandosi però anche all’universo pop. E con cui dal prossimo mese di giugno sarà in tour negli stadi di tutta Italia. Un amore imprevisto che tiene molto a dichiarare già dalla cover: una ricostruzione urbana surreale liberamente ispirata alla cosiddetta “città degli angeli”. Amo questa copertina perché rappresenta con uno scatto tutto il percorso che mi ha portato a realizzare questo nuovo album, di cui Los Angeles è diventata inaspettatamente lo scenario. Cosa che non avrei mai detto. Perché? La prima volta che ci sono andato avevo poco più di vent’anni. Amavo le città di provincia come la mia, dove sembrava di essere in un grande villaggio in cui camminare e trovare sempre punti di riferimento. Lì invece era proprio il contrario: non c’era un centro storico, un punto in cui ritrovarsi, ed era sempre tutto troppo distante. E’ stato un vero e proprio scontro culturale. Poi cos’è cambiato? Ci ho messo dieci anni a capire questa metropoli che adesso adoro, a smettere di odiarla e a decidere addirittura di prenderci casa. Perché più che una città è un luogo, dove, diversamente dall’Italia, si parla poco e si agisce molto, senza perdere tempo. E ho capito che se hai voglia di fare qualcosa, lì la puoi fare. A patto di esporti, di esserci. Era proprio questo a spiazzarmi all’inizio. In che senso? Ero chiuso nel mio mondo musicale che mi faceva sentire protetto e in cui non volevo lasciar entrare nessuno, quindi non volevo fare niente di quello che mi veniva proposto, collaborazioni, interscambi. Tanto più che il pop americano era molto lontano dal mio stile. Poi, poco a poco, ho scoperto che mi sbagliavo. O almeno, che stavo esagerando. Troppo spesso la paura è una cattiva consigliera, e finalmente sto imparando lentamente a riderle addosso. Perché mi sono reso conto di avere molto bisogno di confronto per capire quello che faccio, e quanto sia difficile per me esistere come isola. Anche per questo ho tirato un po’ il freno a mano. Spiegati meglio… Adoro andare in tournèe, sono certo che anche la prossima sarà divertente anche perché riproporrò tutto il mio passato. Ma quando mi sono reso conto che in tanti concerti dall’altra parte del mondo non c’era nessuna di quelle persone che avrei voluto accanto per condividere la mia gioia, ho deciso di rallentare il ritmo della mia vita, anche a costo di perdere qualcosa. Infatti tengo molto a specificare che, per quanto adori Los Angeles e sia entusiasta di vivere questa nuova esperienza, non mi ci sono trasferito: la mia casa è sempre in Italia. Vado e torno perché non so stare fermo, ma il mio Paese non lo lascio.
Settanta anni e non sentirli, anzi. Perché più il tempo passa, e più quelle parole nostalgiche cantate a ritmo di valzer assumono il colore dell’allegria, della giovialità e della fratellanza. In un grande e caloroso abbraccio collettivo che ormai da tempo ha travalicato i confini della Romagna, dove sono state composte, per diffondersi tra quelli non soltanto di tutta Italia, ma proprio del mondo intero. Al tempo stesso crescendo e ringiovanendo sempre di più.
Era il 1954 quando Romagna mia veniva incisa per la prima volta, dopo essere rimasta per un anno nel cassetto del suo autore Secondo Casadei, violinista, compositore e arrangiatore nato a Sant’Angelo di Gatteo, nell’attuale provincia di Forlì-Cesena, il 1° aprile 1906. Poco convinto, forse, della potenza di quelle parole d’amore così accorate inizialmente dedicate, in realtà, alla piccola casa rosa di Gatteo mare dove era solito trascorrere le vacanze estive con la famiglia. E dove scrisse il brano stesso, il cui testo appare impresso tuttora sulla facciata principale.
«Per questo, originariamente, l’aveva intitolata “Casetta mia”, in onore di quella modesta villetta a due passi dal mare che a lui sembrava una reggia per quanto l’amava, dove ogni anno trascorrevamo l’intera estate spostandoci di appena una decina di chilometri da quella di Savignano sul Rubicone dove abitavamo – racconta la figlia Riccarda, che all’epoca aveva appena tredici anni -. Ma evidentemente su quel brano non contava più di tanto, dal momento che decise di darlo alle stampe soltanto a causa di un’emergenza, incoraggiato dal maestro Dino Olivieri (autore di indimenticabili successi dell’epoca come Tornerai e Eulalia Torricelli) che gli consigliò, però, di sostituire “casetta” con “Romagna”, per sottolineare maggiormente quel respiro internazionale in cui intuiva la sua forza, tanto più che papà era comunque innamoratissimo della sua terra».
…ed è subito Romagna Mia
Lui accetta il consiglio. E non appena inizia a eseguirla nei dancing romagnoli dove si esibisce con la sua orchestra, è subito chiaro quanto quella canzone arrivi immediatamente al cuore della gente. Fuori dalle balere, a intonarla per strada sono i garzoni dei lattai, i muratori sulle impalcature, gli studenti sul treno che li porta a scuola. E quando in estate sulle spiagge della riviera compaiono i primi juke-box, anche i turisti stranieri iniziano a selezionarla, portandosi poi il disco a casa come ricordo. Il resto lo fa Radio Capodistria, ascoltatissima, all’epoca, sull’intera costa adriatica dal Friuli alla Puglia, che la trasmette più volte al giorno in seguito alle ripetute richieste degli ascoltatori. Mentre sempre più orchestre da ballo, anche di altre regioni, la inseriscono nel loro repertorio.
E così, volteggiando allegramente a passo di valzer, Romagna mia finisce per conquistare il mondo. Dando origine a curiose versioni in inglese, spagnolo, tedesco, e perfino russo, cinese e giapponese. E omaggiata non soltanto da grandissimi artisti italiani, ma addirittura da star internazionali come Gloria Gaynor e i Deep Purple. Diventando, così, un vero e proprio fenomeno sociale.
Romagna mia, il senso di appartenenza al territorio
«Romagna Mia nasce in un periodo che vede consolidarsi a livello nazionale le musiche da ballo tipiche romagnole, trasformandole da repertorio fortemente ancorato alle tradizioni regionali in un vero e proprio genere musicale, quello del Liscio – spiega la musicologa e divulgatrice Angela Forin -. Un nuovo stile di ballo “all’italiana”, che si contrappone all’esplosione dei ritmi stranieri del momento come il rock’n’roll e il boogie-woogie catturando l’attenzione del pubblico. Tanto più che una delle chiavi del suo successo risiede nella sua capacità di evocare un senso di appartenenza, orgoglio, nostalgia per la regione della Romagna anche in coloro che non ne hanno legami diretti: è un esempio di Heritage Music, una musica che proviene da un ambiente specifico e poi diventa accessibile ovunque, catturando l’interesse di pubblici diversi.
Sentimenti così forti nascono dal ruolo importante che la musica svolge nella formazione e nell’affermazione di identità individuali e collettive: ascoltare, ballare o suonare un certo tipo di sound è un modo per affermare la propria identità e sentirsi parte di una collettività. Un’identità che la musica, attività sociale per eccellenza, aiuta a determinare, caricandola di un valore simbolico profondo ed efficace».
Da Secondo a Raoul, fino ai Santa Balera
Al successo del brano contribuisce di gran lunga anche l’indimenticabile Raoul Casadei, nipote di Secondo (era il figlio di suo fratello Dino, l’autista dell’orchestra). Che, inizialmente riluttante perché più convinto della sua professione di maestro elementare, finisce per ereditare la passione dello zio, entrando prima nella sua orchestra e poi prendendone le redini in prima persona dopo la scomparsa, nel 1971, di quest’ultimo. «E’ stato il babbo a insegnargli le prime nozioni musicali e a regalargli la sua prima chitarra, avendolo scelto come suo “erede” musicale – racconta ancora Riccarda -. E chissà come sta sorridendo ora, sotto ai suoi baffetti, nel vedere la sua Romagna mia celebrata addirittura al Festival di Sanremo, tanto più perché portata sul palco da un gruppo di giovanissimi».
«I giovani, oltre a riconoscere al liscio un grande valore dal punto di vista della maestria strumentale per quelli che studiano musica, vedono nel ballo di coppia un forte elemento di condivisione e comunità per relazionarsi con i propri coetanei, invece di isolarsi a casa dietro lo schermo di un cellulare – assicura Giordano Sangiorgi, ideatore e referente proprio di quei Santa Balera, quindici musicisti e dieci ballerini di età media vent’anni, freschissimi d’esordio al Teatro Ariston e che adesso si apprestano a diventare una vera e propria orchestra con un progetto stabile –. E restano anche loro conquistati da Romagna mia perché è un inno in cui chiunque può riconoscere il valore delle proprie radici e della propria terra, quale che sia, motivo per cui è diventato davvero transgenerazionale. Tanto più se si riesce a sposare la sua tradizione con un pizzico di innovazione, unendo la sua orecchiabilità alle nuove sonorità che guardano al futuro. Insomma, Romagna mia è una scintilla che accende e unisce».
Il Liscio candidato a Patrimonio Immateriale Unesco
E allora, ecco che quella canzone popolare che i dati Siae ufficializzano come una tra le dieci più cantate al mondo, e che nei suoi settanta anni di vita ha venduto oltre quattro milioni di copie, risuona ormai ovunque emanando speranza, allegria e amore. Rimbalzando dai canti accorati e sorridenti dei cosiddetti angeli del fango durante la disastrosa alluvione della scorsa estate, a quelli festosi dei tanti che accolgono ogni Capodanno con un bagno gelido nelle acque romagnole. E ponendosi anche come volano per la forte vocazione turistica del territorio: «Da romagnolo doc quale io sono non posso che andarne fiero, anche considerato il percorso che stiamo portando avanti per la candidatura del nostro ballo liscio a Patrimonio Immateriale Unesco, perché fondamentale per la nostra cultura musicale popolare – dichiara Andrea Corsini, assessore al turismo dell’Emilia Romagna –; per questo credo che il punto di forza di Romagna mia sia proprio la valorizzazione dell’identità territoriale, che dopo essersi posta anche come inno della resilienza romagnola nel drammatico periodo dell’alluvione, ha riscosso ancora più apprezzamento e simpatia».